Un mese e mezzo fa un ragazzo di 28 anni del Benin ha tentato il suicidio lanciandosi dal tetto. Qualche giorno fa un ragazzo marocchino di 26 anni si è cucito la bocca usando della lana grossa e del fil di ferro recuperato dalle cavità della struttura in cui è prigioniero.
Non stiamo parlando della Polonia del passato, né della Libia dei giorni nostri, ma dell‘unico Centro per il Rimpatrio presente in Sardegna, uno dei pochi in Italia. Seppur con le dovute differenze, parliamo di Macomer, terzo comune della provincia di Nuoro, nell’anno 2020.
J. non si è cucito la bocca per farsi liberare. Non lo ha fatto neanche “per attirare l’attenzione” come suggerito da qualche luminare convinto che bucarsi la faccia con del ferro possa rappresentare un passatempo egocentrico. J. lo ha fatto per lasciarsi morire, in un gesto disperato volto a impedirsi di mangiare e bere nonostante la fame.
Il suo sciopero del cibo è durato 4 giorni e le sue condizioni fisiche sono arrivate ad essere preoccupanti. Ora fortunatamente, il ragazzo ha tolto i punti ed è tornato a mangiare, ma si stava spegnendo accanto a noi nell’indifferenza generale.
Il motivo che lo ha spinto a un tale gesto è legato al limbo dantesco di cui vittima da 5 mesi tra i diversi centri e Cpr d’Italia. Una “zona grigia” che -oltre a disumanizzare chi la vive- gli impedisce di supportare la famiglia in Marocco e, soprattutto, di pagare le cure mediche per il padre gravemente malato, ragione che lo aveva spinto a salpare per l’Italia alla disperata ricerca di fortuna. Un fortuna mai incontrata.
J. non poteva parlare ma è come se ci avesse urlato: “Le ho provate tutte, ormai è finita. Se mio padre dovesse morire, morirò anche io”.
Ora, si può credere o no a queste parole, si può essere più o meno liberali sull’immigrazione, si può dare la colpa a una o un’altra frangia politica della sua cattiva gestione, si può persino dire, come spesso avviene, che la scelta non dipenda da noi. Si possono trovare tante scuse, in quello siamo bravi, ma non si può certo ignorare quello che succede, non si può fare finta che non ci riguardi, non si può credere che non sia una nostra responsabilità come cittadini e come territorio prendere atto della realtà e muoverci di conseuguenza.
Molti dei miei compaesani hanno tristemente commentato: ”se non gli sta bene che tornino a casa loro”. È proprio questo quello che sfugge. Chi sta in un Cpr non può tornare a casa neanche volendo.
J. per esempio potrebbe essere rimpatriato e tornare dal padre, oppure ricevere un permesso per lavorare e aiutarlo a distanza. Purtroppo però, non può fare né uno né l’altro, può solo aspettare di conoscere il suo destino, privato di ogni libertà da 5 mesi, deportato da una parte all’altra dell’Italia, non perché criminale ma essenzialmente perché nato dalla parte sbagliata del Mediterraneo. Perché troppo povero per dimostrare di avere un conto bancario solido e necessario ad ottenere un visto italiano, nonostante in linea d’aria casa sua disti quanto quella di un tedesco o della maggior parte degli europei.
Non ci sono poi solo “migranti economici” come J.. Dentro il Cpr ovviamente ci sono anche delinquenti in fuga e persone che in Italia hanno trovato posto nella criminalità, ma al loro fianco, grazie al decreto sicurezza, ci sono anche perseguitati e rifugiati che non potranno più ricevere la protezione umanitaria perché “non in fuga dalla guerra”.
Poco importa se nel tornare nel loro paese potrebbero subire carcere, tortura e pena di morte per il loro orientamento politico, religioso o sessuale. Poco importa se per arrivare qui hanno passato l’inferno nel deserto nordafricano dove ci sono i nuovi mercanti di schiavi ad aspettarli. Poco importa che la nostra complicità in tutto questo rappresenti una gravissima violazione dei diritti umani.
Molti, troppi, preferirebbero togliersi la vita in un Cpr che farsi spedire tra le braccia della morte dal nostro -democratico e civile- paese. Un Bel Paese a cui troppo spesso è bastato dire “qui non ci sta tutta l’Africa” per dimenticarsi, tra un reality show e un aperitivo, di tutte le bombe che sul quel continente abbiamo sganciato fino a 8 anni fa, quando abbiamo invaso la Libia per detronare Gheddafi, appropriarci delle risorse naturali e lasciare il paese in mano all’ Isis e alla guerra civile.
Al posto di questa e tante altre recenti guerre, quanti italiani avremmo potuto aiutare? Al posto di un milione di iracheni civili ammazzati quanti disoccupati o impenditori italiani avremmo potuto salvare?
A quelli che infatti tronfi dicono che “anche qui si soffre” vorrei chiedere: davvero credete che privare qualcuno dei diritti umani migliori le condizioni degli italiani che non arrivano a fine mese? Come fate a credere che in uno dei paesi più ricchi al mondo il vostro malessere dipenda da chi ha meno di voi?
Io non so come dirlo ma vedere certe scene nell’indifferenza generale mi fa capire sempre più come e perché le cose più atroci, crudeli e inspiegabili del passato siano potute accadere senza che la gran parte alzasse un dito prima che non fosse troppo tardi.
Non so voi, ma vedere ragazzi della mia età o più piccoli che tentano di uccidersi o si flagellano dal dolore non mi sembra un modo di mettere “prima gli italiani”, quanto piuttosto di metterci “tutti dopo”, nessuno escluso.
Io da sardo, da cristiano o da italiano non sto guadagnando nulla da questa situazione, se non una valanga di sdegno e disperazione che colpisce tutti coloro che oltre al corpo hanno ancora un cuore e un cervello. Quello che accade è tutto il contrario di quello che serve per sentirsi europei, italiani, sardi e fieri del proprio paese o del proprio retaggio culturale.
Il nostro leggendario Sardus Pater era un migrante nordafricano, Sant’Antioco invece, patrono della Sardegna, era un migrante mauritano, mentre San Pantaleo, nostro patrono paesano, era un migrante turco.
Se Gesù, povero e perseguitato com’era, tornasse per la seconda volta in medio oriente e tentasse di raggiungere la sua chiesa a Roma, probabilmente finirebbe in un Cpr.