Questo racconto breve da vita ad #AcreScritture, la nuova rubrica di ProPositivo rivolta a tutti gli appassionati di scrittura e illustrazione, con lo scopo di accogliere e promuovere i loro lavori.
Si dice che l’adolescenza termini quando si è in grado di perdonare gli adulti per la propria imperfezione. Si dice che ci si possa dire saggi solo dopo aver perdonato perfino se stessi. L’infanzia invece? Cos’è? Ha un inizio e una fine? Io ebbi la fortuna di conoscere un amico, la cui infanzia durò 70 anni, ed è tutt’ora riflessa nei suoi occhi di bambino. Non è un modo di dire, anch’io stentavo a crederci. Era un caso eccezionale, imparava molto lentamente come se avesse un ritardo, ma invecchiava fisicamente solo quando maturava dentro. Questa è la sua storia.
Italo nacque a fine anni 40. Figlio unico di una famiglia tanto numerosa quanto multietnica, martoriata da una faida secolare con i vicini. Nessuno ricorda come o perché la faida ebbe inizio. Lui non la vivette, la sentì solo raccontare da tutti coloro che lo apostrofavano come “l’unica gioia frutto di quel dolore”: la madre, donna poliglotta dall’aria mediterranea, ma con tratti nordeuropei e mediorientali; il nonno, vecchio partigiano dell’est; e lo zio Tommaso, un immigrato americano che -nonostante odiasse il nonno socialista- veniva elogiato dalla madre di Italo più dello stesso padre, ex poliziotto di cui raramente si udiva voce.
Il nonno e la madre non mancavano di affetto e buoni consigli, ma zio Tommaso non mancava mai in tutti gli altri sensi. Per trovare lavoro, per arrivare a fine mese o risolvere i problemi con i vicini. Chiedeva solo piccoli favori in cambio. Per tutto bastava una chiamata, e anche se quella chiamata poi non partiva sempre, la sola idea di poterla fare li rassicurava.
Col tempo Italo crebbe e fece nuove amicizie. Nel 1958 giurò loro fedeltà e si appassionò sempre più al calcio. Il suo aspetto ricordava quello della madre e tra gli amici la sua bellezza spiccava sempre. Nel 68 erano i più fighi di tutti, ed erano temuti persino dai bulli. Senonché le commissioni dello Zio si fecero più ambigue, e la mamma iniziò a mancare di casa per diverse notti.
Mi raccontò che un giorno, di ritorno con lei da scuola, vide due tizi litigare al bar d’angolo, quando uno di loro infranse il bicchiere sul collo dell’altro, uccidendolo. Era il 1978 e mentre riaffiorava l’incubo della grande faida, presagi di morte affollavano i pensieri. Nessuno poteva proteggerlo dai suoi demoni, ne gli amici, ne la madre, ne tantomeno il beneamato zio o l’onnipotente Dio. Quattro anni dopo però, portò la sua squadra di calcio a vincere il campionato, divenendo l’idolo del paesino e scordandosi per un momento di quei mostri, che nel mentre montavano dentro, nell’apparente calma.
Nel 1989 le angosce furono confermate. Il nonno morì, ma non solo, il padre si ripresentò minacciando che sarebbe tornato presto a riprendersi tutto, finché non fu allontanato dai parenti. Al funerale gli amici non furono empatici, scherzavano tra loro. Non erano gli unici. La morte del nonno poneva infatti fine a lapiù grande faida in paese. Più che riflettere su chi o cosa si era appena perduto, si voleva festeggiare la fine della paura, senza chiedersi se i vincitori sarebbero stati in grado di assicurare un futuro migliore.
Crollò l’infanzia del mito e all’impotenza sopraggiunse l’indifferenza. La vita non era più così dolce e di questo Italo, non sapeva perché, ma mentre biasimava il mondo si sentiva in parte responsabile. In più, dalla morte del nonno anche lo Zio sparì, si indebitò e iniziò a farsi vivo solo per riscuoter l’aiuto passato. Fu allora che Italo scoprì che la madre da qualche tempo si prostituiva, e che in passato il marito, suo padre, abusava di lei. Si ammalò di depressione e si convinse che il solo modo di essere felice fosse pensare a se: sfruttare gli altri come gli altri avrebbero fatto con lui.
Entrava alle medie e già marinava la scuola, con lavoretti per i “faccendieri” locali. La pubertà nel mentre avanzava verso il sesso opposto, senza eccezioni. Era il 1994, quando sulle orme di un sedicente Cavaliere, scoprì il denaro facile e le donne, e oltre a loro, portò avanti solo la sua passione per il calcio. Gli amici crebbero anch’essi e il gruppo si allargò. Italo sapeva bene che loro erano l’unico freno che impediva al suo deficit fisico di deprimerlo e al suo egoismo di prendere il sopravvento. Vivevano ormai in simbiosi e nel 98 facevano cassa comune per tutti gli acquisti.
All’alba del nuovo millennio, nel 2001, si dava una festa esclusiva e lui ospitò tutti a casa propria. Quella notte però, il padre tornò a fargli visita. Sfondò la porta a calci e devastò la casa, prima di andarsene ricordandosi di aver dimenticato su fileferru in macchina. Il terrore lo paralizzava e neanche la polizia lo prendeva sul serio, il figlio dell’ex-collega.
Tutti i suoi piccoli fornitori e acquirenti presero a sparire ed essere arrestati, finché nel 2008 non arrivarono a incriminare la cima del malaffare in paese, lo zio Tommaso. Da li, la vita divenne ancora più difficile. Tutto cambiò. Cambiò il loro appartamento, ormai troppo caro. Cambiò il rapporto con la madre, con cui smise di parlare. Troppe le bufale raccontate. Lei non poteva certo impedirgli di esprimersi, ma poteva sempre negargli ascolto. Cambiò anche il rapporto con gli amici, ormai freddi e accusatori, e persino i gusti migrarono verso lidi più esotici. Era quasi un adolescente, ma era già stanco di cambiare.
Nel 2018 Italo camminava al centro della strada. Non gli sarebbe importato di essere investito. E’ buio ma conosce ormai tutte le scorciatoie sulla via di casa a memoria, anche quelle non illuminate. E’ diventato uno dei tanti adolescenti ribelli e vanitosi, che maschera dolore e insicurezza con cinismo e arroganza: completamente anti-sistema. Tolse le chiavi dalla tasca quando una mano colpì con violenza il portone, facendogli perdere l’equilibrio. Alle sue spalle suo padre, ubriaco e in compagnia.
Non finì mai di raccontarmi la sua storia. Mi lasciò un giorno all’improvviso, scappando dal riformatorio in cui convivevamo. Rubò un pallone e un libro di Storia della Repubblica. Diceva di ritrovarsi in quel libro, lo faceva sentire compreso. Non a caso, a volte mi sembra quasi che i suoi 70 anni di bambino, siano come lo specchio dell’infanziadella cultura democratica del nostro paese.
Fremeva al solo pensiero che nel 2018 la fine della Grande guerra e le Leggi razziali compiano rispettivamente 100 e 80 anni; mentre la Repubblica, la Comunità Europea e l’Euro diventino un settantenne, un sessantenne e un ventenne. Si celebrano anche i 50 e i 40 anni dei diritti civili e della morte di Moro, insieme al trentesimo e decimo rintocco dalla crisi del comunismo e del neoliberismo. Quasi come un eterno ritorno: scadenze decennali ricollegate al numero 8, ormai anche il preferito di Italo. Per lui questo era il suo anno.
Con la fuga, lasciò solo un biglietto sopra il cuscino. C’era scritto: Sono ancora un adolescente e come tutti gli adolescenti ho il diritto di non avvisare e fare tardi la sera; di non prendermi sulle spalle il peso della mia famiglia e del mondo; di seguire il mio delirio di ormoni; di ascoltare musica di merda; di fare stronzate con gli amici; di scappare dai problemi o di affrontarli; di capire i miei errori o di ricommetterli. Ho il diritto, se solo volessi, di incolpare tutto e tutti per non essere riusciti a rendermi la persona che mi avete illuso per tutta la vita di volere e dover essere. Ho il diritto, e lo voglio, di vivere l’età che ho.
Testo: Gian Luca Atzori
Illustrazione: Valentina Vinci